La storia di Girolamo Minervini è un esempio straordinario di coraggio e dedizione al dovere. Nonostante le minacce e la consapevolezza di essere nel mirino delle Brigate Rosse, Minervini scelse di non accettare la scorta per evitare di mettere a rischio la vita di altre persone.
Un magistrato integerrimo
Girolamo Minervini, nato a Teramo nel 1919, ha avuto una carriera di successo nella magistratura italiana. Dopo aver lavorato presso il Ministero di Grazia e Giustizia e la Procura generale della Cassazione, è stato nominato Direttore Generale degli Istituti di Prevenzione e Pena, un incarico di grande responsabilità conferitogli dall’allora Presidente del Consiglio Francesco Cossiga. Nonostante le minacce e il pericolo imminente, ha continuato a svolgere il suo lavoro con integrità e impegno.
Il tragico 18 marzo 1980
La mattina del 18 marzo 1980, mentre si recava al lavoro a bordo dell’autobus numero 991, Minervini fu ucciso da alcuni membri delle Brigate Rosse. Nonostante il questore di Roma gli avesse imposto la scorta, Minervini l’aveva rifiutata, preferendo non mettere a rischio altre vite umane. Questo gesto rifletteva il suo profondo senso del dovere e della responsabilità verso la società.
Due brigatisti, successivamente identificati come Francesco Piccioni e Sandro Padula, salirono sull’autobus insieme a Minervini e aprirono il fuoco. Sei colpi raggiunsero il magistrato, uno dei quali fu fatale, mentre altri tre colpirono passeggeri innocenti. Nonostante la gravità dell’attacco, solo una persona accettò di testimoniare al processo, contribuendo così a identificare gli assassini del magistrato.
Un ricordo indelebile
Girolamo Minervini lasciò la moglie Orietta e i figli Ambra e Mauro. In sua memoria è stata intitolata l’Aula Magna del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Il suo sacrificio e impegno per il bene comune rimangono un esempio di integrità e coraggio per le generazioni future.
“Il suo senso dello Stato e del dovere nei confronti della Comunità erano profondissimi; l’impegno politico, quale ricerca del bene della polis, bene culturale irrinunciabile”, ha dichiarato il figlio Mauro in un’intervista al Secolo XIX.