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‘Ndrangheta, condannato a 20 anni il boss Carzo: decapitata la prima “locale” romana

Operazione Direzione Investigativa Antimafia. Immagine repertorio. Roma-CronacaLive.it
Operazione Direzione Investigativa Antimafia. Immagine repertorio. Roma-CronacaLive.it

17 condanne con il rito abbreviato dal gup di Roma nell’inchiesta “Propaggine“: 20 anni al boss Antonio Carzo, capo della prima “locale” romana

Sono bastati pochi minuti di camera di consiglio per sciogliere la riserva e leggere la sentenza di condanna a carico dei vertici della prima “localeromana: 17 condanne che decapitano la più antica cellula di ‘ndrangheta nella Capitale.

Il rito è abbreviato, ma per il boss Antonio Carzo, 63 anni di Sinopoli (RC), già al 41 bis in Sardegna, c’è il massimo della pena previsto: 20 anni di carcere. Per i figli, condanne un po’ più leggere: 16 anni e 6 mesi per Domenico Carzo e 12 anni e due mesi per Vincenzo Carso. In tutto, il gup di Roma ha inflitto ben 17 condanne che, in tutto, sfiorano i 150 anni, ma anche due assoluzioni. Si vedrà poi se, in appello, l’impianto accusatorio che sembra essere stato accolto quasi totalmente, sarà confermato.

Domenico Carzo, però, non è l’unico capo della ‘ndrina decapitata: anche Vincenzo Alvaro è finito in manette nel corso della maxi operazione della Direzione Distrettuale Antimafia di Roma “Propaggine“.

Iniziato anche il processo ordinario a carico di Vincenzo Alvaro, con Carzo alla guida della locale romana

La difesa di Alvaro ha scelto il processo ordinario, che si è aperto avanti all’VIII sezione penale del Tribunale di Roma il 12 settembre scorso. Insieme ad Alvaro, sul banco degli imputati anche altri 43 presunti membri dell’organizzazione, su cui pendono, a vario titolo una lista di capi d’accusa lunga come una quaresima: associazione mafiosa, detenzione e spaccio di droga, estorsione, detenzioni di armi, fittizia intestazione di beni, truffa ai danni dello Stato, riciclaggio, favoreggiamento e concorso esterno in associazione mafiosa.

Vincenzo Alvaro ed Antonio Carzo erano alla testa della cellula romana, attiva fin dal 2015, con pieno mandato dei capicosca calabresi: “Noi a Roma siamo una propaggine di là sotto”[…] “siamo 100 in questa zona del Lazio”, si rilevava nelle intercettazioni agli atti della Procura. Con un pedigree di tutto rispetto, appartenenti alle storiche famiglie di Cosoleto (RC), tenevano sotto controllo, con preoccupazione, il lavoro dei magistrati romani, riconoscendo, nella Procura capitolina, alcuni di coloro che avevano già duramente colpito gli affari delle famiglie: “… Pignatone, Cortese, Prestipino“[…] “questi erano quelli che combattevano dentro i paesi nostri” […] “Cosoleto … Sinopoli … tutta la famiglia nostra … maledetti“.

I due boss guidavano la locale congiuntamente, anche se il ruolo ufficiale di promotore degli affari romani era stato affidato a Carzo, mentre Alvaro avrebbe dovuto affiancarlo nella direzione: si sarebbero, poi, divisi il territorio dando vita a due nuclei in cui erano coinvolti i rispettivi familiari.